Huck
Hi Marco,
I hope you read this ...
I took the following poem "In Lode of Zanzara" of Bronzino (printed 1555) from this source
http://books.google.com/books?pg=PA273&client=firefox-a&id=w_4rAAAAMAAJ#PPA263,M1
The automatic transcription by Google has a lot of mistakes, I tried to repair them, but surely I found not all (the most common error is an exchange of "f" and "s").
It contains a passage about the game of Germini ... I and my bad Italian are too stupid to identify, if it totally is dedicated to this game. Perhaps you can give a comment.
CAPITOLO
IN LODE DELLA ZANZARA.
A Messer Benedetto Varchi.
VARCHI, i' vò fostener con tutti a gara,
Che fra le bestie, e'hanno qualche stocco,
II Principato tenga la Zanzara.
Ed ecci qualch'Autor , che n'ha già tocco,
Ma non la conoscendo, ha detto cose,
Che non si sarien dette da un Allocco.
Così fon state fue virtù nascose,
Che chi ne scrissè, non volse la gatta,
Che la fatica, o l'invidia lo rose.
Io son d'una natura così fatta,
Che quando io veggo 'l vero, o ch'io lo provo,
Io son uso a chiamar la gatta, gatta.
Voi anche so , ch'avete fitto il chiovo
Di dire il ver, e non bisogna orpello
Con un'uom, che conosce il pel nell'uovo.
Costor vidon sì piccol quello uccello
Io lo chiamo così, perch' egli ha l'ale,
Che lo trattaron com'un pazzerello.
Ben mi cred'io, che ve ne sappia male,
Perch'io son certo, che l'animo vostro
Dell'invidia é nemico capitale.
Ma innanzi al fine io potrei avervi mostro
Forfe di lei tal cose , che forzato
Sareste a comsegrarle e foglio, e 'nchiostro.
E potreste veder, quanto fu ingrato
Platone, ed Aristotile, ed Omero,
Ch'ebber l'ingegno a così buon mercato,
A non ne fare un libro intero, intero,
E lasciare star l'anime, ed Ettorre,
Ed altro, che Dio sà poi s'egli é vero.
Ma tempo é ormai, ch'io vi cominci a porre
Dinanzi a gli occhi scritto altro che frasche,
E non vi cibi di venti, e di borre.
Scrivendo a voi, non mi par , ch' egli accasche,
Ch'io cachi 'l angue per farvi vedere,
Come questo animal si crei, o nasche.
Per me confesso di non lo sapere,
Ben sarebbe cortese opinione,
E non ci costa a credere, e tenere,
Ch' ei nasca come nascon le persone,
Ma qualche cosa, ch'io vi dirò poi,
Me ne fa dubitar per più cagione.
Così potrete me' veder da voi,
Pigliandon' una, che non è fatica,
Senza ch'io vi disegni i membri suoi.
Or cominciam, che Dio ci benedica,
Dico, che la Zanzara il primo´tratto
Si vede efler dell' ozio gran nemica:
La vorrebbe veder gli nomini in atto
Travagliarsi, star desti, e far faccende,
Come colei, che'ntende il Mondo affatto.
E perchè sa, che'l tempo, che il spende
Nel sonno, è, come dir, gittato via,
Si leva fu i come il lume s'accende.
E va sempre appostando, ove tu sia,
Quel che tu faccia, e fe tu ti dimeni,
La ti farà di rado vislania.
Ma quando ella s'avvede, che tu vieni
Al fatto del dormire, anch'ella viene
Per chiarirsi de'modi, che tu tieni:
E questo non lo fa sé non per bene,
La vuoi veder le persone assettate,
Non a casaccio, come vien lor bene.
Quanti si getterebbon là la State
Sul letto a gambe larghe senza panni,
Cogli usci, e le finestre spalancate?
cosa, che dà col tempo degli affanni ,
Perchè si piglia spesso una imbeccata,
O gualche doglia, che ti dura gli anni.
La prima, che ciò vede, una Brigata
Dell'altre chiama, e vengono a sgridarci;
Come fi fa alla gente spenfierata.
Cercan la prima cosa di destarci
Co' canti lor, perchè noi ci copriamo,
Che starien chete volendo mangiarci.
Ma s'elle veggon poi, che noi dormiamo
Scoperti, e non curiam le lor parole,
Le ci danno di quel che noi cerchiamo.
E par, che dichin, poiché costui vuole
Del male, a far, ch'ei n'abbia: nondimeno
Glié mal, che giova molto, e poco duole:
Ch'elle ci cavan certo sangue pieno
Di materiaccia, ch'é fra pelle, e pelle,
E saria rogna, o qualch'altro veleno.
Io metterei fu altro che novelle,
E giucherei, che i Medici, e' Barbieri
Hanno imparato a trar fangue da quelle :
Come imparare a fare anche i cristeri
Da quel1' uccel, che 'l becco fra' peccati
Si ficca, a farsi il corpo più leggieri.
Noi siamo a questa bestiuola obbligati
Per mille cose, ch' io non vò contare,
E noi ce le mostriam sempre più ingrati.
Io non me l'ho trovato, anzi parlare
N'ho sentito a parecchi, che 'l bel suono
Delle trombe insegnaron le Zanzare:
Che di tanta importanzia al Mondo sono,
Che ho voglia di dir, che senza queste
E' non ci resteria troppo del buono.
Ponete mente il giorno delle feste,
Dove si giuoca a Germini, ed allora
Vi fian le mie parole manifeste,
L'Imperadore, e il Papa, che s'adora
Vi son per nulla, e le virtù per poco.
Fede, e Speranza, ed ognaltra lor suora,
Il Zodiaco, e'l Mondo, e'1 Sole, e'l fuoco,
L'aria, e la terra, ogni cosa fi piglia
Con quelle trombe alla fine del giuoco.
La gente s'argomenta, ed assottiglia
Fino a un certo che, poi s'abbandona,
Gli studj, ed ogni cosa si scompiglia.
Chi trovò questo gioco, fu persona,
Che dimostrò d'aver cervello in testa,
E tanto manco poi fe gli perdona:
Ch'egli aveva a cercar, reggendo questa
Tromba, tanto valer di quella cosa,
Che fu cagion d'un suon di tanta festa.
La qual trovata aver la generosa
Zanzara in una carta ornata, e bella
Dipinta, coma quando, o vola, o pofa.
E far, che fosse ogni trionfo a quella
Soggetto, e così il giuoco andava in modo
Che'l ver saria rimasto in sulla sella.
S'io stessì fano , e ch'io avessi il modo ,
Tanto ch'io fossì un tratto Imperadore,
Io farei pur un'insegna a mio modo.
Io non ne vorre' andar prefo al Romore ,
E lascerei quell'aquila a' Trojani,
Che mandò quel fanciullo al Creatore.
La ne dovete far parecchi brani
Del poverino, e dicon che fu Giove,
Che'l portò in Cielo, io'l crederei domani
E fenza andarmi avviluppando altrove
Torrei questa, ch'io canto per bandiera,
Ed udite a ciò far quel che mi muove.
La fama ha quelle trombe, e vola altera,
Come costei, ond'io l'ho per figliuola
D'una Zanzara, eli' ha quella maniera.
E se la fama tanto vale, e vola ,
' Quanto varre'la madre , e volerebbe
Per la riputazion, non ch'altro, sola?
Credo che folo al nome tremerebbe
Quanto la terra imbratta, e l'acqua lava,
E che col tempo ognun meco starebbe.
Ha obbligo a costei la gente brava,
Più ch'a fuo padre, e certo, che senz essa
Io non so ben come '1 fatto s'andava.
Ella ha nel Mondo la ver'arte messa
Del combattere, e gli uomini da fatti
Ne faccin fede a chi non lo confessa:
Che fanno mille cerimonie, ed atti,
Stanno su'punti, ed appiccan cartelli,
Poi combattono infieme, e sanno patti.
Non si van con le spade, e co'coltelli
Addosso al primo, anz'ordinano un giorno?
Ch'ognun lo sappia, e possa ire a vedelli.
Orlando, e i Paladin davan nel corno
La prima cosa , e non correvan lancia,
Che non andassin sei parole attorno.
E benchè questo fi trovasse in Francia,
E le trombe in Toscana, e' fu costei,
Ch'insegnò queste cose, e non è ciancia.
Che chi pon cura diligente a lei,
Potrà veder, ch' ella non tocca, o fere,
Senza sonar tre volte, e quattro, e sei.
Però costor, che ordinan le Schiere
Come si debbe, non fanno Battaglia,
Se non lo fanno al nemico a sapere.
Quanto più miro fiso, più m'abbaglia
Questa cotale, e non trovo la via,
Onde l'ingegno a tanta altezza saglia.
Io credo quasi quasi, ch'ella sia:
Immortale, vel circa, e mi rammenta,
Che quest è 'l poi, ch'io vi promisi pria
Ch'io mi ricordo averne morte cento
Per sera, innanzi ch'io le conoscessì ,
Ond'io credea d'averne il seme spento;
E per ben ch'io chiudessì, e rinchindeffi
Usci, e finestre, e'n camera col lume
Mai non entrassi , e gran cura ci avessì;
Io non era sì tofio nelle piume,
Ch' io risentiva il numero compiuto ,
Ond'io m' accorsi poi del lor costume.
E m'è più volte nel cervel venuto,
Ch'ella rinasca , come la Fenice,
Benché non le bisogni tanto ajuto:
La può far, senz' andar nella felice
Arabia, e fenza mettere in assetto
Cotante spezierie, quante si dice.
Per me n'ho una in camera a dispetto
Di chi non vuol, che non lo sapend' io,
M'era morta ogni notte intorno al letto.
Ond' io n'ebbi quistion col garzon mio;
Tanto ch'io fui per romperli la bocca,
E dissi insiu che s' andasse con Dio.
Ch'ammazzarle, oltr'al male, é la più sciocca
cosa del Mondo, ella tornava viva,
Come s'ella non fosse stata tocca.
Ed ecci, e stacci, ed é quella, e sta priva
Di compagnia, e già parecchi mesi
M'ha corteggiato, forse perch'io scriva.
Potreste forse dirmi avendo intesi
Questi miei versi, dimmi un pò, Bronzino,
Perché non paja, ch' io bea paesi:
Questo animal, che tu fai sì divino,
E vuoi, ch' ei faccia presti gl'infingardi,
Perchè piglia e' l'Inverno altro cammino?
Ed alla tua ragion se ben riguardi,
Allor n'avrebbe a esser più che mai,
Che impigrisce, non ch'altro, i più gagliardi,
Bel dubbio certo, e da lodarlo assai,
Ma io non mi smarrisco già per questo,
E mostrerò, ch'io scrissi, e non errai.
Chi è ito pel Mondo manifesto
Conosce, che non c'è terra nessuna,
Dove non si a qual cola di molesto:
La sta con noi la State, acciocch'alcuna
Persona non ammali, ed anche un pezzo
Dello Autunno, e poi muta fortuna.
Nè il fuo partir ci nuoce, allorch'avvezzo
E' questo nostro paese in tal forma,
Che l'ozio a darci noja sarà il fezzo.
La povertà farà, che non si dorma,
E mill'altri rimedj ci saranno
Contro allo starsi: questa è cosa in forma.
Ma pur chi ne volessé tutto l'anno,
E' c'è più d'un paese, ove n'avanza,
Come dicon le genti, che vi vanno.
Dicon, che nella Puglia n'è abbondanza,
Ma le maremme di Roma, e di Siena,
E non c'è troppo, n'hanno anche a bastanza.
Quivi un e'aveflè la scarsella piena,
E poi foflè nemico del rippfo,
Avrebbe a star, fe crepaflè'di pena.
Io ne fon sempre stato disioso,
E farei un bel tratto andarvi, quando
Io fossì ricco, e manco voglioso.
O che diletto indiavolato, stando
In quelle parti, cred'io, ch'e' si provi,
Quand'elle vanno la notte ronzando!
Òuand'un s'abbatte a cosa, che gli giovi,
Ed anche piaccia, io credo che si possa
Torla a chins' occhi, purchè se ne trovi.
Ma la gente oggi è maliziosa o grossa
Talchè per ignoranza, o per malizia,
Ogni cosa di buon ci lascia l'ossa.
Avremmo a procurar d'aver dovizia
Di zanzare, e far fogna, pozzi, e acquai,
E s'altro luogo più le benefizia.
Ed avrebbesi a far legge, che mai
Non ardissin d'offenderle i Cristiani ,
Bench'elle gli toccassin poco, o affai.
Dispiacemi veder gli uomini strani,
Che non sanno uno scherzo sofferirc,
E per ogni cofuzza alzan le mani.
Che doveremmo amare, e riverire
Chi per farci del ben ci fa de male,
Uscir di lezie , e imparare a patire.
Pur faccin quel, ch'ei voglion, ch'eì non vale
Quando beni un le schiacci* arda, o scancelli,
Per quant' è scritto in su questo cotale.
Ma perchè tanto i Poemi son belli,
Quant' ei son brevi, fia ben, ch'i confenta
Far quattro versi , e poi non ne favelli.
Quest' animal in fomma mi contenta
Sì stranamente, ch' a tutti i miei amici
Ne vorrei sempre intorno almanco trenta,
Per farli destri, e più sani, e felici.
I hope you read this ...
I took the following poem "In Lode of Zanzara" of Bronzino (printed 1555) from this source
http://books.google.com/books?pg=PA273&client=firefox-a&id=w_4rAAAAMAAJ#PPA263,M1
The automatic transcription by Google has a lot of mistakes, I tried to repair them, but surely I found not all (the most common error is an exchange of "f" and "s").
It contains a passage about the game of Germini ... I and my bad Italian are too stupid to identify, if it totally is dedicated to this game. Perhaps you can give a comment.
CAPITOLO
IN LODE DELLA ZANZARA.
A Messer Benedetto Varchi.
VARCHI, i' vò fostener con tutti a gara,
Che fra le bestie, e'hanno qualche stocco,
II Principato tenga la Zanzara.
Ed ecci qualch'Autor , che n'ha già tocco,
Ma non la conoscendo, ha detto cose,
Che non si sarien dette da un Allocco.
Così fon state fue virtù nascose,
Che chi ne scrissè, non volse la gatta,
Che la fatica, o l'invidia lo rose.
Io son d'una natura così fatta,
Che quando io veggo 'l vero, o ch'io lo provo,
Io son uso a chiamar la gatta, gatta.
Voi anche so , ch'avete fitto il chiovo
Di dire il ver, e non bisogna orpello
Con un'uom, che conosce il pel nell'uovo.
Costor vidon sì piccol quello uccello
Io lo chiamo così, perch' egli ha l'ale,
Che lo trattaron com'un pazzerello.
Ben mi cred'io, che ve ne sappia male,
Perch'io son certo, che l'animo vostro
Dell'invidia é nemico capitale.
Ma innanzi al fine io potrei avervi mostro
Forfe di lei tal cose , che forzato
Sareste a comsegrarle e foglio, e 'nchiostro.
E potreste veder, quanto fu ingrato
Platone, ed Aristotile, ed Omero,
Ch'ebber l'ingegno a così buon mercato,
A non ne fare un libro intero, intero,
E lasciare star l'anime, ed Ettorre,
Ed altro, che Dio sà poi s'egli é vero.
Ma tempo é ormai, ch'io vi cominci a porre
Dinanzi a gli occhi scritto altro che frasche,
E non vi cibi di venti, e di borre.
Scrivendo a voi, non mi par , ch' egli accasche,
Ch'io cachi 'l angue per farvi vedere,
Come questo animal si crei, o nasche.
Per me confesso di non lo sapere,
Ben sarebbe cortese opinione,
E non ci costa a credere, e tenere,
Ch' ei nasca come nascon le persone,
Ma qualche cosa, ch'io vi dirò poi,
Me ne fa dubitar per più cagione.
Così potrete me' veder da voi,
Pigliandon' una, che non è fatica,
Senza ch'io vi disegni i membri suoi.
Or cominciam, che Dio ci benedica,
Dico, che la Zanzara il primo´tratto
Si vede efler dell' ozio gran nemica:
La vorrebbe veder gli nomini in atto
Travagliarsi, star desti, e far faccende,
Come colei, che'ntende il Mondo affatto.
E perchè sa, che'l tempo, che il spende
Nel sonno, è, come dir, gittato via,
Si leva fu i come il lume s'accende.
E va sempre appostando, ove tu sia,
Quel che tu faccia, e fe tu ti dimeni,
La ti farà di rado vislania.
Ma quando ella s'avvede, che tu vieni
Al fatto del dormire, anch'ella viene
Per chiarirsi de'modi, che tu tieni:
E questo non lo fa sé non per bene,
La vuoi veder le persone assettate,
Non a casaccio, come vien lor bene.
Quanti si getterebbon là la State
Sul letto a gambe larghe senza panni,
Cogli usci, e le finestre spalancate?
cosa, che dà col tempo degli affanni ,
Perchè si piglia spesso una imbeccata,
O gualche doglia, che ti dura gli anni.
La prima, che ciò vede, una Brigata
Dell'altre chiama, e vengono a sgridarci;
Come fi fa alla gente spenfierata.
Cercan la prima cosa di destarci
Co' canti lor, perchè noi ci copriamo,
Che starien chete volendo mangiarci.
Ma s'elle veggon poi, che noi dormiamo
Scoperti, e non curiam le lor parole,
Le ci danno di quel che noi cerchiamo.
E par, che dichin, poiché costui vuole
Del male, a far, ch'ei n'abbia: nondimeno
Glié mal, che giova molto, e poco duole:
Ch'elle ci cavan certo sangue pieno
Di materiaccia, ch'é fra pelle, e pelle,
E saria rogna, o qualch'altro veleno.
Io metterei fu altro che novelle,
E giucherei, che i Medici, e' Barbieri
Hanno imparato a trar fangue da quelle :
Come imparare a fare anche i cristeri
Da quel1' uccel, che 'l becco fra' peccati
Si ficca, a farsi il corpo più leggieri.
Noi siamo a questa bestiuola obbligati
Per mille cose, ch' io non vò contare,
E noi ce le mostriam sempre più ingrati.
Io non me l'ho trovato, anzi parlare
N'ho sentito a parecchi, che 'l bel suono
Delle trombe insegnaron le Zanzare:
Che di tanta importanzia al Mondo sono,
Che ho voglia di dir, che senza queste
E' non ci resteria troppo del buono.
Ponete mente il giorno delle feste,
Dove si giuoca a Germini, ed allora
Vi fian le mie parole manifeste,
L'Imperadore, e il Papa, che s'adora
Vi son per nulla, e le virtù per poco.
Fede, e Speranza, ed ognaltra lor suora,
Il Zodiaco, e'l Mondo, e'1 Sole, e'l fuoco,
L'aria, e la terra, ogni cosa fi piglia
Con quelle trombe alla fine del giuoco.
La gente s'argomenta, ed assottiglia
Fino a un certo che, poi s'abbandona,
Gli studj, ed ogni cosa si scompiglia.
Chi trovò questo gioco, fu persona,
Che dimostrò d'aver cervello in testa,
E tanto manco poi fe gli perdona:
Ch'egli aveva a cercar, reggendo questa
Tromba, tanto valer di quella cosa,
Che fu cagion d'un suon di tanta festa.
La qual trovata aver la generosa
Zanzara in una carta ornata, e bella
Dipinta, coma quando, o vola, o pofa.
E far, che fosse ogni trionfo a quella
Soggetto, e così il giuoco andava in modo
Che'l ver saria rimasto in sulla sella.
S'io stessì fano , e ch'io avessi il modo ,
Tanto ch'io fossì un tratto Imperadore,
Io farei pur un'insegna a mio modo.
Io non ne vorre' andar prefo al Romore ,
E lascerei quell'aquila a' Trojani,
Che mandò quel fanciullo al Creatore.
La ne dovete far parecchi brani
Del poverino, e dicon che fu Giove,
Che'l portò in Cielo, io'l crederei domani
E fenza andarmi avviluppando altrove
Torrei questa, ch'io canto per bandiera,
Ed udite a ciò far quel che mi muove.
La fama ha quelle trombe, e vola altera,
Come costei, ond'io l'ho per figliuola
D'una Zanzara, eli' ha quella maniera.
E se la fama tanto vale, e vola ,
' Quanto varre'la madre , e volerebbe
Per la riputazion, non ch'altro, sola?
Credo che folo al nome tremerebbe
Quanto la terra imbratta, e l'acqua lava,
E che col tempo ognun meco starebbe.
Ha obbligo a costei la gente brava,
Più ch'a fuo padre, e certo, che senz essa
Io non so ben come '1 fatto s'andava.
Ella ha nel Mondo la ver'arte messa
Del combattere, e gli uomini da fatti
Ne faccin fede a chi non lo confessa:
Che fanno mille cerimonie, ed atti,
Stanno su'punti, ed appiccan cartelli,
Poi combattono infieme, e sanno patti.
Non si van con le spade, e co'coltelli
Addosso al primo, anz'ordinano un giorno?
Ch'ognun lo sappia, e possa ire a vedelli.
Orlando, e i Paladin davan nel corno
La prima cosa , e non correvan lancia,
Che non andassin sei parole attorno.
E benchè questo fi trovasse in Francia,
E le trombe in Toscana, e' fu costei,
Ch'insegnò queste cose, e non è ciancia.
Che chi pon cura diligente a lei,
Potrà veder, ch' ella non tocca, o fere,
Senza sonar tre volte, e quattro, e sei.
Però costor, che ordinan le Schiere
Come si debbe, non fanno Battaglia,
Se non lo fanno al nemico a sapere.
Quanto più miro fiso, più m'abbaglia
Questa cotale, e non trovo la via,
Onde l'ingegno a tanta altezza saglia.
Io credo quasi quasi, ch'ella sia:
Immortale, vel circa, e mi rammenta,
Che quest è 'l poi, ch'io vi promisi pria
Ch'io mi ricordo averne morte cento
Per sera, innanzi ch'io le conoscessì ,
Ond'io credea d'averne il seme spento;
E per ben ch'io chiudessì, e rinchindeffi
Usci, e finestre, e'n camera col lume
Mai non entrassi , e gran cura ci avessì;
Io non era sì tofio nelle piume,
Ch' io risentiva il numero compiuto ,
Ond'io m' accorsi poi del lor costume.
E m'è più volte nel cervel venuto,
Ch'ella rinasca , come la Fenice,
Benché non le bisogni tanto ajuto:
La può far, senz' andar nella felice
Arabia, e fenza mettere in assetto
Cotante spezierie, quante si dice.
Per me n'ho una in camera a dispetto
Di chi non vuol, che non lo sapend' io,
M'era morta ogni notte intorno al letto.
Ond' io n'ebbi quistion col garzon mio;
Tanto ch'io fui per romperli la bocca,
E dissi insiu che s' andasse con Dio.
Ch'ammazzarle, oltr'al male, é la più sciocca
cosa del Mondo, ella tornava viva,
Come s'ella non fosse stata tocca.
Ed ecci, e stacci, ed é quella, e sta priva
Di compagnia, e già parecchi mesi
M'ha corteggiato, forse perch'io scriva.
Potreste forse dirmi avendo intesi
Questi miei versi, dimmi un pò, Bronzino,
Perché non paja, ch' io bea paesi:
Questo animal, che tu fai sì divino,
E vuoi, ch' ei faccia presti gl'infingardi,
Perchè piglia e' l'Inverno altro cammino?
Ed alla tua ragion se ben riguardi,
Allor n'avrebbe a esser più che mai,
Che impigrisce, non ch'altro, i più gagliardi,
Bel dubbio certo, e da lodarlo assai,
Ma io non mi smarrisco già per questo,
E mostrerò, ch'io scrissi, e non errai.
Chi è ito pel Mondo manifesto
Conosce, che non c'è terra nessuna,
Dove non si a qual cola di molesto:
La sta con noi la State, acciocch'alcuna
Persona non ammali, ed anche un pezzo
Dello Autunno, e poi muta fortuna.
Nè il fuo partir ci nuoce, allorch'avvezzo
E' questo nostro paese in tal forma,
Che l'ozio a darci noja sarà il fezzo.
La povertà farà, che non si dorma,
E mill'altri rimedj ci saranno
Contro allo starsi: questa è cosa in forma.
Ma pur chi ne volessé tutto l'anno,
E' c'è più d'un paese, ove n'avanza,
Come dicon le genti, che vi vanno.
Dicon, che nella Puglia n'è abbondanza,
Ma le maremme di Roma, e di Siena,
E non c'è troppo, n'hanno anche a bastanza.
Quivi un e'aveflè la scarsella piena,
E poi foflè nemico del rippfo,
Avrebbe a star, fe crepaflè'di pena.
Io ne fon sempre stato disioso,
E farei un bel tratto andarvi, quando
Io fossì ricco, e manco voglioso.
O che diletto indiavolato, stando
In quelle parti, cred'io, ch'e' si provi,
Quand'elle vanno la notte ronzando!
Òuand'un s'abbatte a cosa, che gli giovi,
Ed anche piaccia, io credo che si possa
Torla a chins' occhi, purchè se ne trovi.
Ma la gente oggi è maliziosa o grossa
Talchè per ignoranza, o per malizia,
Ogni cosa di buon ci lascia l'ossa.
Avremmo a procurar d'aver dovizia
Di zanzare, e far fogna, pozzi, e acquai,
E s'altro luogo più le benefizia.
Ed avrebbesi a far legge, che mai
Non ardissin d'offenderle i Cristiani ,
Bench'elle gli toccassin poco, o affai.
Dispiacemi veder gli uomini strani,
Che non sanno uno scherzo sofferirc,
E per ogni cofuzza alzan le mani.
Che doveremmo amare, e riverire
Chi per farci del ben ci fa de male,
Uscir di lezie , e imparare a patire.
Pur faccin quel, ch'ei voglion, ch'eì non vale
Quando beni un le schiacci* arda, o scancelli,
Per quant' è scritto in su questo cotale.
Ma perchè tanto i Poemi son belli,
Quant' ei son brevi, fia ben, ch'i confenta
Far quattro versi , e poi non ne favelli.
Quest' animal in fomma mi contenta
Sì stranamente, ch' a tutti i miei amici
Ne vorrei sempre intorno almanco trenta,
Per farli destri, e più sani, e felici.